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domenica 6 febbraio 2022

GENTE NEL «VICOLO STRETTO»


(Vico Pachia)


di Luigi Murolo

No! Non è la terza casella del “Monopoli” dopo il “Via”. Molto più semplicemente, forse il vicolo più angusto oggi esistente in quel del Vasto (a spanne cm. 80 ca.). Fino al 1872 era denominato “Vico 2° S. Anna”. Da quella data in poi, “vico Pachia”, così come indicato nella toponomastica attuale.
Un titolo importante nell’attribuzione. Un riferimento esplicito alla «gens Paquia» del «municipium histoniensium», la cui testimonianza più rilevante è del sarcofago bisomo di fine I sec. a. C. dedicato a «Publius Paquius Scaeva». Qualcosa, insomma, che, nell’immaginario collettivo, potesse restituire il senso dei resti archeologici – soprattutto quattro iscrizioni funerarie di età romana – emersi dalle profondità nel corso del tempo: CIL IX, 2839, CIL IX, 2849, CIL IX, 2877, CIL IX, 2881.
Certamente importante l’idea toponomastica sottesa. Ma questa foto del 1938 rivela qualcosa di profondamente diverso. Lungo il breve percorso, tutti seduti dove selciato e scale ne trattengono i corpi. Nemmeno una sedia che indichi un’occupazione di suolo o, meglio, un insediamento nel luogo. Solo provvisorietà scandita dalle teste reclinate con gli occhi rivolti verso il basso, con il solo bimbo che muove la testolina alla sua destra. A ben vedere, c’è solo un volto crucciato che, dalla finestrella in alto sulla sinistra, osserva lo straniero con il misterioso oggetto tra le mani che si aggira nello spazio riservato ai residenti. Un volto davvero seccato dall’intrusione! Che strano, però! L’uomo che fa capolino non ha alcun rapporto con la stradella sottostante. Un rapporto – va detto – che, in qualche modo, si potrebbe intuire dai rudimentali montacarichi di canne che si intravedono in lontananza. E invece, no. Nulla di tutto questo. Anzi, quasi per una sorta di contrappasso, lì dove sono questi ultimi, non si trovano in alto soggetti sporti al davanzale. Nessuno, insomma, affacciato per sollevare i canestrelli e svuotarli all’interno della propria abitazione.
Uno scatto, nei fatti, coglie l’attimo fuggente di quella calda giornata di luglio. Che, a una certa ora del giorno, sintetizza lo status di una minuscola comunità che vive in un tempo sospeso. Non tedioso, ma neghittoso. Che l’osservatore vuole fissare in un’istantanea. Un antropologo? Uno psicologo? Oppure un fotografo che, nel luogo, vuole leggere l’umore dell’abitante? Chissà! Forse tutte queste cose messe insieme. Ma, di là da tutto, ciò che conta è la scena: un rituale meridiano dove si intrecciano – come dice Borges – «Non le strade veementi/ assillate da smanie e trambusto, / ma la dolce strada dei sobborghi/ trepida di penombra e crepuscolo». Ecco allora il senso di quella rappresentazione. Il corridoio di un esterno trasformato in interno in cui tutti tacciono. Dove ognuno è solo e non guarda l’altro. Dove si avverte lo sfiorire della comunità e la nascita di qualcosa di diverso: la «waste land» d’un paese chiamato «lu Huàśtǝ».

GENTE NEL «VICOLO STRETTO»


Pubblicato da Mercurio Saraceni

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