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mercoledì 24 marzo 2021

Dantedì 2021: «Seguitando il mio canto con quel suono»

 


«Seguitando il mio canto con quel suono»

Riflessi musicali nella Commedia




di Federica Marrollo

Tutti coloro che hanno studiato e amato la Commedia si sono imbattuti nella politica, nell’amore, nella teologia e nell’astronomia, ma in nessun caso si sono soffermati sulla musica. Eppure, la musica è uno degli elementi fondamentali per capire la concezione dantesca del mondo ultraterreno. Questo articolo rivolto alla musica propone l’opera in una prospettiva nuova e originale. 

Sommamente si dilettò in suoni e in canti nella sua giovinezza, e a ciascuno che a quei tempi era ottimo cantore o sonatore fu amico e ebbe usanza; e assai cose da questo diletto tirato compose, 

 le quali di piacevole e maestrevole nota a questi cotali faceva rivestire





L’immagine che ci tramanda Boccaccio nella Vita di Dante è di un Dante musicista e studioso di musica. Questa sua profonda conoscenza della musica la troviamo prima nelle sue opere minori quali la Vita Nova e Convivio e poi anche nell’opera maggiore della Commedia. Ed è proprio attraverso la musica che affronta l’argomento principale del poema, cioè l’Amore di Dio. I riferimenti musicali all’interno della Commedia dantesca sono numerosi e complessi. La costruzione musicale dell’opera segue in gran parte la classificazione boeziana, teoria diffusissima nel medioevo musicale. Secondo Boezio la produzione musicale è classificabile in tre livelli gerarchicamente organizzati e distinti, fondati sui principi di proporzione matematiche: istrumentalis, humana e mundana. La musica mundana è la musica realizzata dal cosmo, leggi armoniche che costruiscono la dimensione fisica e metafisica dei cieli. Il suono ineffabile prodotto dallo sfregamento delle sfere celesti diviene espressione della perfezione dell’armonia. La musica humana è il prodotto dell’equilibrio armonico interno tra l’anima e il corpo. Si tratta di una musica de interiore homine che aspira alla riproduzione dell’armonia celeste. La musica istrumentalis comprende ogni suono prodotto dagli strumenti musicali, è compresa anche la voce umana, strumento fornitoci dalla natura. La triplice concezione musicale struttura musicalmente le tre cantiche. Nell’Inferno la mancanza di ordine, quindi del tempo, vieta alla musica istrumentalis di realizzarsi. Simbolicamente tale impossibilità rispecchia lo stato di non armonia delle anime dannate. Il Purgatorio è permeato di musica humana, le anime penitenti a poco a poco si accordano, come se fossero degli strumenti musicali. Nel Paradiso i cori angelici diventano spesso inintelligibili al protagonista. Innanzi alla maestosità del caeli machina, la parola, come la conoscenza umana, è limitata ed inefficace. Nel regno della musica mundana, l’unica forma di espressione di questa musica inesprimibile è il silenzio.

Quivi sospiri, pianti e alti guai

Nell’Inferno le leggi della musica sono rovesciate. Il rumore e i suoni costituiscono l’anti-musica. La sofferenza delle anime, le quali patiscono pene crudeli, risuona per il regno del caos. Nelle grida laceranti dei peccatori s’intende il dolore e il tormento, conseguenza che deriva dall’assenza della spiritualità e dell’ordine e per questi motivi non può esistere musica vera e propria, la quale darebbe un conforto, seppur minimo, ai dannati. Tuttavia, i principi fondamentali della fisica acustica stabiliscono che un suono prodotto da un corpo che vibra genera delle onde sonore regolari; al contrario quando le vibrazioni sono irregolari si produce rumore, appare evidente, quindi, che nell’Inferno, luogo in cui tutto è irregolare e disordinato vi siano rumori e non suoni. Nonostante questo, nel regno delle tenebre è presente un episodio di musica istrumentalis in cui Dante sente «sonare un alto corno», appartenente al gigante Nembrot.

Seguitando il mio canto con quel suono



Il Purgatorio è caratterizzato da una presenza costante della musicalità, poiché il canto ha un ruolo importantissimo nell’espiazione dei peccati. A differenza di ciò che accade nell’Inferno, dove il suono umano e il suono bestiale si contrastano, nel Purgatorio la salmodia delle anime purganti sovrasta ogni altro suono e la parola ha uno spazio subordinato. Tuttavia, è importante tener presente che in molti casi, l’intonazione della preghiera viene tenuta nell’incertezza, vi è un oscillare tra il cantare e il dire, oppure il canto che sfuma nel pianto, nel grido. I canti delle anime rinviano al loro peccato terreno, contribuiscono all’espiazione delle loro colpe; per tale motivo molti dei canti sono salmi o inni penitenziali o pasquali. Cantare rappresenta l’unico modo di manifestare le preghiere, i sentimenti ed il proprio credo con una intensa partecipazione emozionale che è ampliata dal coinvolgimento delle altre anime purganti. È il canto corale, insieme alle preghiere, alla condivisione della memoria e speranze, esprime come meglio non si potrebbe il vincolo che lega le anime tra loro: la carità. Il poeta riconosce, fra tutte le anime, quella di un suo amico musicista, e insieme a Virgilio e alle anime si lasciano ammaliare dal canto profano di Casella «Amor che ne la mente mi ragiona’/ cominciò elli allor sì dolcemente, / che la dolcezza ancor dentro mi suona» (Purg. II, vv. 112-114), dimenticandosi della loro vera priorità: la purificazione dal peccato. Le anime sono in accordo con l’equilibrio del cosmo, mentre cantano il salmo del vespro; ma appena esse smettono di cantare il salmo e incominciano ad ascoltare le dolci note di Casella, il loro equilibrio viene meno, per tale motivo le anime sono interrotte da un furioso Catone che li riporta sulla via della rettitudine.

Amor che move il sole e le altre stelle


Nel Paradiso c’è uno scenario totalmente nuovo. Se nel Purgatorio il canto rimanda ai canti del repertorio sacro, la musica del Paradiso è strettamente connessa alla luce e al movimento. Alla salmodia del Purgatorio si contrappone la polifonia, anche se non mancano degli esempi di musica gregoriana. La polifonia si trasforma nel riflesso musicale della perfetta armonia; rappresenta la corrispondenza e la compiuta circolarità del canto. In questa nuova dimensione la parola umana si fa sentire sempre meno, la comunicazione avviene solo per permettere al lettore d’intendere. Beatrice e i santi leggono nella mente di Dante, il pellegrino deve lasciare che il suo intelletto e il suo spirito entrino in contatto con ciò che lo circonda. Viene meno anche la distinzione dei sensi, vista e udito si fondono sempre di più. Al Paradiso appartiene la musica del cosmo, «la novità del suono e ‘l grande lume/di lor cagion m’accesero un disio/mai non sentito di cotanto acume» (Par. I, 76-84). Nel loro movimento, le sfere producono armonia, tutti i movimenti sono ordinati dalla natura, la terra è la nona sfera e rimane immobile al centro dell’universo. Arrivato al cospetto della candida rosa, gli occhi di Dante subiscono un potenziamento visivo. L’Empireo è il regno che «pausa in tanto amore e in tanto diletto, che nulla volontà è di più ausa» (Par. XXXII, 61-62). Il movimento che aumentava al passaggio di cielo in cielo, qui trabocca di pace assoluta. Dante non può accedere alla musica suprema, poiché egli è vivo, appartiene ancora al mondo mortale. Così, l’assenza di musica nell’Empireo non è l’affermarsi del silenzio, quanto piuttosto il giungere della musica a una perfezione che l’orecchio umano non può comprendere. Poco prima della visione di Dio, la mente di Dante è da una folgorazione tale che riesce ad appagare ogni suo intimo desiderio: «se non che la mia mente fu percossa/ da un fulgore in che sua voglia venne. /A l’alta fantasia qui mancò possa; /ma già volgeva il mio disio e ‘l velle, /sì come rota ch’igualmente è mossa, /l’amor che move il sole e l’altre stelle» (Par. XXXIII, vv. 140-145).


Pubblicato da Mercurio Saraceni

lunedì 22 marzo 2021

Raffaele Mattioli 1/5

 


 

Raffaele Mattioli 

Banchiere - Umanista – Uomo

Parte 1/5

di Renata d'Ardes

Grande banchiere, raffinato umanista e grande uomo, profondamente colto e curioso, Raffaele Mattioli fu anche scaltro e abile manovratore dei destini economici dell’Italia del dopoguerra.

Duro, al limite della spietatezza con i presuntuosi, sfer­zante con i cinici, inesorabile con gli ingrati, si addolciva invece con i più semplici ai quali non avrebbe mai inflit­to un’umiliazione.

Mattioli era sempre molto severo con i potenti sui quali spesso esercitava quella che può ben essere definita «l’arma del sarcasmo»; la totale assenza di subalternità e una superiorità intellettuale gli davano quel piglio autori­tario di cui finiva egli stesso col compiacersi e che irrita­va, invece, le persone che lo incontravano.

Giancarlo Galli, giornalista e saggista, nel suo libro «Il banchiere eretico» ha tentato di definire la complessa personalità e l’opera di Mattioli: entrato in Comit non ancora trentenne, ne è uscito dopo quarantasette anni di ininterrotto servizio il 22 aprile 1972, prima vittima della lottizzazione politica e della spartizione forsennata di poltrone in corso tra DC e PSI, rifiutando orgogliosa­mente la presidenza onoraria. Dagli Anni Trenta ai Settanta, epoca di grandi mutazioni, guidò le sorti della BCI (Comit) e in parte anche dell’economia stessa del nostro Paese.

Fu definito un uomo polytropos, cioè singolarmente multiforme. Non è quindi casuale che per i settantacinque anni della Comit egli abbia fatto coniare una meda­glia riproducente un’immagine classica di Ulisse, il perso­naggio dell’immaginario che l’archeologo Bernard Andreae in un suo libro definì, in base ai reperti iconogra­fici, il prototipo dell’uomo dinamico moderno, addirittu­ra il precursore «dell’uomo europeo».

Mattioli nacque a Vasto, in provincia di Chieti, il 20 marzo 1895. Secondo di tre figli, frequentò con brillanti risultati l’istituto Tecnico Commerciale «Galiani» di Chieti, successivamente nel 1912 si trasferì a Genova, iscrivendosi all’istituto Superiore di Studi Commerciali. Era felice d’essere abruzzese, e fiero d’essere italiano. I due patriottismi in lui, come nella maggior parte degli uomi­ni della sua generazione, si fondevano naturalmente. II suo Abruzzo aveva dato i natali ai grandi patrioti italiani Bertrando e Silvio Spaventa, e al nipote degli Spaventa, Benedetto Croce, il più profondo e colto degli studiosi che maggiormente influenzò la vita intellettuale del nostro umanista. Quando parlava degli Spaventa, gli si illuminava lo sguardo. La loro grandezza era la grandezza che egli sognava per l’Italia; nobiltà d’animo, altezza di pensiero, larghezza di visione, severità di studi e di azio­ne.

Croce inizialmente diffidò di Mattioli: pensò che fosse un «orecchiante». In seguito, ammise di essersi sbagliato, perché quello di Mattioli era amore autentico per la cul­tura: spesso si azzuffavano, amichevolmente s’intende, sulla concezione che lui aveva per la cultura, l’amore per la cultura libresca, a lui l’accademismo piaceva, mentre, per alcuni, fu considerato un male italiano..., ma nel giu­dizio sui valori non sbagliava. Scartava la giovane cultura italiana, ma aiutava i giovani, e se riconosceva un talento era sempre pronto a sostenerlo. Se Mattioli fosse nato in Francia avrebbe intere librerie a lui dedicate, ma in Italia fu dimenticato, visto che questo è un Paese che spreca i suoi talenti; «gli italiani non sono un popolo, sono accampati in Italia, come cavallette che devastano ogni cosa» (Indro Montanelli).

(Benedetto Croce)

Mattioli di Croce non fu soltanto, come comunemen­te si dice, amico; fu anche seguace assiduo, assimilatore di tutti gli aspetti di quel pensiero non in superficie, ma in profondità. In un discorso che egli tenne a Parigi, al Centro di Cultura Italiana, su Croce e la cultura francese, Mattioli ci dà la misura della conoscenza che egli ebbe degli scritti del filosofo; non certo una conoscenza super­ficiale, da dilettante, ma minuziosissima, portata su ogni particolare. Presso l’istituto di Studi Storici di Napoli, egli illustrò il suo rapporto con Croce, spiegò quale fu il nesso profondo che lo legava all’amico filosofo, chiarendo in sostanza quella concezione che costituì la «sua filosofia». Mattioli si avvicinò a Croce sulla base della scoperta fatta dal Maestro della categoria dell’utile, scoperta che gli aprì le ragioni di una giustificazione del suo pratico operare, dell’operare che apparteneva alla sua specifica professione. La categoria dell’utile divenne la categoria della vita, della vitalità. La vitalità in cui tutto viene ad essere riassorbito e compreso, questo fondo oscuro, questo gurgite, questo vortice da cui tutto promana e in cui tutto confluisce, concetti e intuizioni, impulsi e sentimenti e operazioni.

Nel 1915, allo scoppio della «grande guerra» interrup­pe gli studi universitari e si arruolò come volontario nel­l’esercito, con il grado di Ufficiale di Fanteria. Partecipò a varie battaglie: ferito a un braccio, ottenne una meda­glia di bronzo al valor militare. Dopo la convalescenza, tornò a combattere, partecipando alla presa di Trieste: in quest'occasione conoscerà la prima moglie, diventando padre nel mese di luglio del 1920. Distaccato a Fiume al termine della guerra, con il grado di Capitano, è per qualche mese al fianco di Gabriele D’Annunzio, quale addetto all’ufficio stampa. Mattioli partecipò alla spedi­zione per senso di necessità, convinto di cambiare qual­che cosa nel nostro Paese dal momento che le cose non potevano continuare con la mucine di sempre. Mattioli non tollerò il gergo, il modo di non pensare, il tono del parlare di D’Annunzio, soprattutto quella specie di curiosa democrazia che reggeva Fiume. Puntualmente Mattioli contraddiceva il Vate e cercava di obbligarlo a «fare i conti». Alla fine D’Annunzio esplose: «Odio i ragionatori che hanno il cervello con il callo, come il ginocchio del cammello nel deserto». Guarito ben presto dalla retorica del Vate, ha un’ammirazione incondiziona­ta che lo affascina, più che convincerlo, data dalla forza della parola; ma più ancora o più in profondo, l’ideolo­gia risorgimentale.

 Mattioli non è mai stato un dannunziano, quindi non è stato un fascista, quindi non è stato un comunista, quindi non è stato nulla che significasse retorica, partito preso, teoria preconcetta e così via. Fu un uomo che seria­mente cercava di capire, e cercava di capire per creare.

Sulla sua partecipazione alla guerra Mattioli non lasciò testimonianze: l’aveva tagliata fuori dai suoi ricordi; né ritenne che fosse argomento da inserire nella sua inesau­ribile raccolta di aneddoti. Le rare volte che ne parlava, e accadeva soltanto con gli amici più intimi, era solo per raccontare del periodo, ricco di incontri umani, trascorso nell’ospedale militare di Napoli, dove fo ricoverato per una grave ferita al braccio sinistro; ma per sfuggire alla retorica, che intravedeva sempre in agguato, non disse mai in quale circostanza fosse rimasto ferito. «Del resto», spiegava, «io, in guerra, mi sono lanciato sportivamente». E aggiungeva: «Pensate un po’, sportivamente, io che non so andare neanche in bicicletta!». Non raccontò mai nulla. La sola traccia visibile del suo «passaggio» attraver­so la guerra, fo il braccio lievemente impedito dai postu­mi della ferita che qualche volta toccava, dicendo: «Domani pioverà».

A guerra finita, Raffaele Mattioli si ritrovò nei corridoi dell’università di Genova, dove la Scuola Superiore di Commercio divenne Facoltà. Tutti i candidati, o quasi, sono in divisa, non chiedono più di un diciotto assolutorio; lui ha sul petto il nastrino azzurro della medaglia al valore e quello della croce militare, e, sulle maniche, i gradi di Capitano.

Si laureò in Economia Politica, con la tesi: «Note sto­rico-critiche intorno al Progetto Fisher per la stabilizza­zione della moneta»: fo molto apprezzato per la chiarezza della tesi da Attilio Cablati, suo relatore ed economista di fama, che l’Italia fascista aveva emarginato e avversato.

Sarà proprio Cabiati a volere Mattioli come assistente stipendiato alla Bocconi, presso l’Istituto di Economia Politica, fondata nel 1920 da Luigi Einaudi, Ulisse Gobbi e dallo stesso Cabiati, nonché, ancora, nella redazione della prestigiosa «Rivista Bancaria». 

(Tratto dalla Rivista: PERCORSI d'oggi Rassegna di Letteratura-Arte-Attualità - Anno XXX - n. 3 - Maggio-Giugno 2014)

(continua)

Renata D’Ardes


Pubblicato da Mercurio Saraceni



Conferenza all’Università “D’Annunzio” di Chieti su “Carlo d’Aloisio da Vasto, Artista e Promotore di Arte e Cultura”

  Conferenza all’Università “D’Annunzio” di Chieti su “Carlo d’Aloisio da Vasto, Artista e Promotore di Arte e Cultura” Nel 130° della nasci...