di Luigi Murolo
Un manifesto. Il semplice manifesto della “Pro Loco "Città del Vasto" su di un concerto annunciato per il Natale. Una fotografia “d’antan” che riconduce il viaggiatore dei cammini abituali sul percorso di una città, divenuto irriconoscibile per i contemporanei. Un Vasto (ricordo sempre che il nome è maschile) di cui abbiamo smarrito lo spirito del luogo. Per l’occasione, ho ritenuto d'obbligo un breve commento all’immagine che accompagna il messaggio dell’accademia corale del Liceo Musicale di Vasto.
(Manifesto concerto - Composizione Grafica "ArtWork") |
Il luogo di cui si sta parlando è l’accesso ovest della via denominata a metà Ottocento “Strada Stanziani” che immetteva sulla piazza in quel periodo appellata “Largo delle Erbe” (oppure “piazza del Pesce”). Dalla grande riforma toponomastica del 1872 in poi hanno assunto le nuove denominazioni di “via del Buonconsiglio”, l’una; di “piazza Caprioli”, l’altra. Le stesse che incontriamo oggi. Il selciato con i ricorsi centrali in pietra lavica – con l’intero impianto stradale del centro storico realizzato nel 1887 – rendeva il percorso carrozzabile. Lo scenario raffigurato nella foto si colloca, nel quarantennio compreso tra il 1887 e il 1929. Il “clic” che immortala il fondale profila un quadro urbano temporalmente ben definito anche se, come già detto, lo scatto è riconducibile agli anni Venti del Novecento. Ora, di là dalla datazione, va ricordato che non sono le “cose” che connotano il “genius loci” di questa rappresentazione. Ma la donna al telaio collocato in un’area pubblica e l’uomo seduto ai piedi della scala esterna. Con un significato evidente. Lo spazio della vita non è riconducibile alla sola stanzetta in alto raggiungibile attraverso una sorta di profferlo con il ballatoio che congrega due ingressi. Non solo uno stambugio al “chiuso”, insomma. Ma lo stesso “aperto”. Dove “chiuso” e “aperto” offrono all’occhio attento dell’osservatore il senso stesso dell’“ex-sistere” o, se si vuole, dell’“abitare”.
La minuscola casa con l’uscio sotto la linea di colmo è un corpo aggiunto a Palazzo Meninni (part. 902, del catasto 1870). Si adeguava lungo il paramento murario nord dell’antico Convento degli Agostiniani trasformato in luogo abitativo, devastato da un violento incendio che, il 21 novembre 1870, aveva cagionato la morte di cinque membri della famiglia Ialacci. Nel censimento del 1901, al n.1 di via Buonconsiglio, viveva in affitto la famiglia Ciampagna. Uno dei cui membri (sarti) sposa Rosa Giosa, la protagonista assoluta dell’inquadratura fotografica. L’amico Francesco Feola, autore del libro “Paranze” (l’unico e fondamentale libro sulla marineria vastese interamente costruito sulla storia orale), mi ha riferito che la vecchia signora lì per sempre fissata dallo scatto era la sua bisnonna. Che aveva una pesante menomazione fisica: la cecità. E per quanto mi riguarda, una tessitrice cieca era l’ultima delle possibilità che avrei potuto ipotizzare!
Del resto, l’immagina parla da sé! Il volto della vecchia signora proteso in avanti non ammette equivoci! Si ha l’impressione che gli occhi guardino il fotografo avendo il telaio bloccato. E invece no! Gli occhi perduti nel buio non incidono affatto sul lavoro artigianale. Il lavoro delle mani e dei piedi sul pedale intrecciano ordito e trama senza il bisogno della vista. Le articolazioni viaggiano da sole: a guidarle è l’esperienza di vita. La tessitrice “abita” la macchina lignea. Ma come? In che senso l’avrebbe “abitata”. In modo molto semplice; secondo l’etimologia del verbo. Dimenticavo. “Abitare” altro non è che “habitare”, il frequentativo medievale del latino classico “habēre” con valore semantico proprio di “avere”. La signora Rosa “aveva”, “possedeva” la tecnica della tessitura. Non aveva bisogno della vista. Le era sufficiente la mente capace di orientare la movimentazione degli arti superiori e inferiori.
Magnifica Rosa Giosa! Abitava la macchina allo stesso modo in cui abitava il “chiuso” e l’“aperto”. In un solo atto congregava in se stessa lo spazio della vita. Anzi, era la vita nella sua forma più alta. Del resto, l’omino accovacciato sulla scala (un parente? Un amico?) disvela lo “star fuori dalla vita”; lo stare in un angolo. L’assenza dal mondo. Lo scatto profila in modo esemplare la dialettica dei paradossi. La cieca (il femminile) afferma il primato dell’essere; il sano (il maschile) lo nega.
Mi tornano in mente alcune parole di Martin Heidegger scovate in un saggio dal titolo “Costruire, abitare, pensare” che non posso sottacere. Il verbo essere, il costruire, l’abitare declinati nel suo tedesco rammentano a tutti noi quanto segue:
«Che cosa significa allora “Ich bin” (Io sono)? Il vecchio termine “bauen” (costruire), cui appartiene “bin” è così declinato: “ich bin, du bist” e significa: io abito, tu abiti. Il modo in cui tu sei e in cui io sono, la maniera in cui tu sei, e in cui io sono, la maniera in cui gli esseri umani “sono” sulla terra, questo è il “buan”, l’abitare».
Ecco! Mi premeva dire solo questo. E l’antica tessitrice cieca, la sconosciutissima Rosa Giosa rimasta nel tesoro memoriale di un suo discendente, ha avuto la straordinaria forza di confermarlo.
Pubblicato da Mercurio Saraceni
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