Gli a-normali
1910. L'ipotesi per la costruzione di un morotrofio vastese
di Renata D'Ardes
La mente è il “software”, e il software
non si “rompe”: funziona male, ha “bachi” (conflitto d’informazioni), è
inadeguato al compito, viene danneggiato da un virus (informazioni dannose) …
ma non si “rompe”, così come non si “rompe” una poesia, un discorso o una
musica.
Come fa allora una “mente” ad “ammalarsi” se non in senso puramente metaforico? La risposta è di Szasz, è che la metafora della “malattia mentale” occulta una forma di comunicazione aberrante per esprimere un disagio, una richiesta d’aiuto causata da un disadattamento a un contesto sociale che spesso non ti accetta, o che è meno che vivibile.
Il “matto” sarebbe lo scarto di
produzione del processo industriale di uniformazione degli esseri umani per
fare di loro cittadini quanto più possibile identici, omologati. E visto che
ogni essere umano è, in partenza, diverso dall’altro, è impossibile che tutti i
pezzi riescano altrettanto bene: qualcuno, che aveva in partenza una forma
inadatta, risulterà inevitabilmente difettoso, “disadattato”…
Ecco qui, il matto.“I pazzi sono normali?” certo che no. Sono definiti “pazzi” proprio perché non sono normali. In moltissime società, in moltissimi contesti, l’anormalità è, ipso facto, pazzia. E poi trattarsi di anormalità di qualsiasi tipo: politico, sessuale, religioso …
Negare la possibile esistenza d’una
differenza come questa significa solo negare il disagio psichico, il bisogno
d’aiuto e spesso d’assistenza delle persone profondamente “pazze”.
Significa lavarsi le mani di fronte alla sofferenza altrui, e questo con il comodo e ipocrita alibi di una visione “progressista” e “politicamente corretta”. Tutto ciò non deve farci perdere di vista il fatto che la pazzia, quella grave, profonda, è in primo luogo inadeguatezza al reale, e quindi sofferenza, solitudine, dolore e perfino morte. Il problema del “pazzo” non è se essere “normale” o meno: cosa irrilevante. E’semmai come riuscire a far combaciare la sua realtà “anormale” con la realtà “normale” degli altri, è riuscire a vivere una vita, a suo modo, “normale”, nel senso di gratificante, e il più possibile priva di sofferenza.
Per “pazzia” si intende assurdità, cosa
impensabile, per cui il pazzo è persona stravagante e irragionevole, senza
ragione; non solo: anche irrequieto, capace di far danno e di essere
pericolosa, per cui il matto è riconducibile ad uno stato di “ubriachezza”. La
pazzia, come l’ubriachezza molesta, è un comportamento da contenere. Infatti,
nel linguaggio comune, si dice “pazzo furioso” e “matto da legare”, come pure
si dice “matto come un cavallo” (cioè imbizzarrito).
Dal Seicento al Novecento nasce e si
consolida il concetto medico biologico di “clinica della mente” concetto
peraltro fortemente inquinato da esigenze di controllo sociale. Di ben altro
tono è invece la “clinica della psiche” di stampo umanistico filosofico.
Progressivamente si viene a consolidare la struttura del manicomio e quindi la concezione medicalista e applicativa dell’ospedale psichiatrico. Il risultato è l’istituzione in cui il soggetto deviato/deviante viene rinchiuso, per proteggere il resto della società la quale se ne sta al sicuro al di fuori delle mura. Non solo, ma il controllo sociale diventa anche controllo clinico, portato all'estremo. D’altra parte non esistevano ancora gli psicofarmaci.
Il difetto dell’ospedale psichiatrico
tradizionale risiede nell’essere man mano diventato una “istituzione totale”:
totale in quanto il soggetto ricoverato deve adattarsi in toto alle regole
della micro – società che lo ospita, mentre per lui il mondo esterno quasi
scompare. La povertà scientifica della neurologia e psichiatria di quel tempo
riducono queste due discipline a mera funzione di etichettamento nosografico e
repressione sociale. Di fatto la malattia mentale non viene curata, anzi viene
sottoposta a “stigma”.
Con l’evoluzione accelerata della
società e della scienza (ad es. la nascita degli psicofarmaci) l’ospedale
psichiatrico diventa poi l’istituzione negata (secondo l’espressione di Franco
Basaglia) per cui alla psichiatria custiodialistico – punitiva si contrappone
l’antipsichiatria. Questo movimento sociale, politico e scientifico conduce
all’abolizione del manicomio.
La giusta liberazione dei “matti” li riporta nella società, però si
aprono i risaputi problemi collegati alle difficoltà delle nuove strutture di
accoglienza e soprattutto si riaprono i problemi per le famiglie.
Al dolore di base si aggiunge la beffa:
il malato di mente già soffre per il male che lo attanaglia, e in più soffre
per un male proveniente dall’esterno, fatto di occhiate, alzate di
sopracciglia, smorfie con le labbra, pensieri taglienti che come lame
s’infilano nell’anima (e anche nel corpo) di colui che ha già un così terribile
fardello da portare.
Il pregiudizio degli altri, degli altri
che sono sani, ferisce, talvolta uccide. Il pregiudizio talvolta non resta solo
un pensiero, ma diventa azione: dallo sguardo si passa al comportamento … e da
qui stigmatizzazione, emarginazione, isolamento, custodialismo, punizione.
Tutti questi meccanismi di difesa della
persona sana tutelano sì la persona sana dall’angoscia, ma in realtà vanno poi
a colpire il più debole.
Elenco tre esempi di come in modo assai
differente la società ha valutato il famoso fenomeno denominato “genio e
sregolatezza”. Per certi versi il genio e il folle sono accumunati dalla
“rottura delle regole”: pertanto essi convergono nella a-normalità, nella
creatività, nella innovazione, psicologicamente parlando nel pensiero
divergente.
Il genio folle: Vincent Van Gogh
(Vincent Van Gogh) |
Questo immenso pittore, sicuramente mentalmente disturbato, è forse il paradigma della malattia mentale realmente esistente che si associa ad una feconda creatività. Non solo, ma la società dei sani si impadronisce di questo frutto artistico e ne fa un potente sfruttamento economico. Quindi Van Gogh è matto ma produce tantissimo denaro. Ecco l’ambiguità del giudizio sociale di massa: il matto utile viene riabilitato. Nel caso di Van Gogh la diversità – devianza è tanto negativa quanto positiva.
Il genio rifiutato: Galileo Galilei
(Galileo Galilei) |
Nel caso di Galileo non c’è follia però la sua genialità viene negata, sia pure solo da una élite sociale in quanto la sua devianza è troppo specialistica per essere compresa dalle masse. Egli viene “bollato” in quanto troppo in anticipo con i tempi. La sua è una bocciatura socio – politica, peraltro senza stigmatizzazione in termini di malattia mentale. Nel caso di Galileo la diversità – devianza è negativa.
Il genio burlone: Albert Einstein
(Albert Einstein) |
Queste tre persone che diventano
“personaggi pubblici” ben dimostrano le ambiguità e le follie del giudizio
sociale emesso o dalle élites o dalle masse, giudizio ampiamente condizionato
da fattori storici e sociali di cui colui che giudica non è consapevole.
Con la nascita degli ospedali psichiatrici, anche la Città di Vasto doveva avere il suo manicomio interprovinciale. Questa notizia è stata pubblicata sul giornale “Istonio” del 6 Marzo 1910.
Recita così:
“Il Risveglio Medico, una pregevole e
simpatica rivista di medicina, chirurgia ed igiene, di cui è redattore capo il
Dr. Iavicoli, e che fa onore alla classe sanitaria della intera regione,
pubblica un interessante e sennato articolo, che prende le mosse dall’ultima
esposizione finanziaria fatta dal presidente della Deputazione Provinciale di
Chieti.
L’egregio estensore, dopo di essersi
intrattenuto sul migliorato servizio degli esposti nella nostra provincia,
specialmente con l’apertura del brefotrofio in Vasto, è venuto a trattare il
tema dell’assistenza dei mentecatti poveri, la quale oggi grava sul bilancio
provinciale col non indifferente onere di circa 123 mila lire: onere che
sarebbe di gran lunga superiore se, per fortuna, il Chietino non desse una
delle più basse percentuali di pazzi in Italia.
Pur tuttavia, da questo argomento il
Risveglio, che non cessò mai di propugnare l’istituzione di un manicomio
provinciale per ragioni di scienza e d’opportunità, si dichiara ora convinto,
in base alle cifre esposte nella relazione del Comm. Nobile, come il bilancio
della nostra Provincia non offra margini per provvedere alla costruzione di un
manicomio proprio, tutto proprio, la cui spesa non sarebbe certamente inferiore
ad un milione di lire; e sostiene che occorre, invece, fermarsi ad esaminare le
tre proposte seguenti:
1) Chiedere alla Stato quanto è
necessario perché la nostra Provincia sia in grado di porsi a livello delle
altre;
2) Promuovere l’istituzione di un
manicomio interprovinciale tra Teramo, Chieti e Campobasso, o semplicemente tra
Chieti e Campobasso;
3) Studiare se con la somma che si
spende oggi, e con una parte del beneficio che si avrebbe tra due anni dalla
proposta Sonnino, per la cessione dallo Stato alle Provincie del provento
derivante dall’ultimo decimo di guerra, aggiunto all’imposta sui terreni, sia
possibile pagare gl’interessi e la quota di ammortamento del capitale,
necessario per la costruzione, magari a gradi, del manicomio, nonché le spese
del relativo funzionamento.
Su queste tre proposte, che, secondo
noi, concretano i più semplici e vitali quesiti della questione, occorre quindi
convergere ogni studio, se vuolsi conciliare gl’interessi della scienza e
dell’umanità con le esigenze finanziarie; epperò con esse il seme è lanciato,
il polline è dato al vento, e non si tratta di una improvvisazione o di un
sogno irrealizzabile. Intorno al grave problema deve anzi formarsi una pubblica
opinione; e questo dovere di propaganda spetta principalmente alla stampa, perché
solo dall’attrito sereno ed obiettivo delle idee può scaturire il programma
netto e preciso della soluzione.
Certo è che l’impianto di un manicomio, preferibilmente in consorzio col limitrofo Molise, s’impone; e noi crediamo che tra i luoghi più adatti sia da designare Vasto, così per la sua centralità e per ogni altro opportuno requisito naturale, come per considerazioni di convenienza distributiva, essendo la nostra città rimasta lungamente negletta e solo da qualche decennio avviata ad un avvenire più conforme al suo decoro e al progresso dei tempi”
(Istonio n. 10 del 6 marzo 1910 - Archivio storico comunale - Vasto)
I dementi di Vasto, venivano ricoverati presso il Manicomio di Aversa. Certificati, permessi, delibere ed informazioni, se positive (nel senso che dopo la lettura dei certificati, il malato risultava nullatenente, pericoloso, disturbatore della quiete pubblica) allora il demente poteva raggiungere Aversa accompagnato dalle Guardie Municipali. La Deputazione Provinciale di Chieti si impegnava a pagare il mantenimento e le cure del malato, poiché la famiglia risultava indigente.
Il manicomio di Aversa ha avuto molti
nomi: Pazzeria degli incurabili, Reale casa de’matti, Reale Manicomio della
Maddalena, Real Ospedale Psichiatrico di Aversa, Ospedale psichiatrico S. Maria
Maddalena (ultima denominazione).
La sede manicomiale del Regno era ubicata nel cinquecentesco Ospedale “degli Incurabili” di Napoli. Già in età borbonica ci si accorse della sua inadeguatezza e la necessità di creare degli spazi attrezzati e configuranti. Fu, tuttavia, il Re di Napoli Gioacchino Murat che nel 1813 con un Regio decreto mise mano alla questione e fondò le “Reali Case de’matti”.
Il fatto che molte di queste Case
fossero ospitate in antichi conventi e ne mantenessero la struttura e l’aspetto
non è un caso. La loro creazione coincise con un periodo di grandi espropri di
possedimenti ecclesiastici. Murat stesso nel 1809 nel quadro di una riforma di
ammodernamento dello Stato confiscò più di un centinaio di monasteri. La loro
destinazione ad uso civile rimase anche dopo la fine del periodo Napoleonico.
Aversa non fece eccezione ed il primo nucleo fu sistemato nel confiscato
convento della Maddalena.
(Ex Convento della Maddalena ed ex manicomio di Aversa, un pezzo di storia abbandonato) |
Con l’avvento dei francesi la “pazzeria” viene smantellata e creato il primo luogo deputato esclusivamente alla cura ed al ricovero dei malati di mente. I folli erano curati con una organizzazione di vita che era fatta di regole ed orari, ma anche divertimenti e svaghi, occupazioni in attività varie come ascolto di musica, attività teatrali ecc. Oggi potremo dire un percorso di “socializzazione”. Tutto ciò era davvero rivoluzionario se si pensa che i folli erano curati con salassi, purghe “per permettere l’evacuazione delle parti folli del sé”, bagni gelati, punizioni e contenzione.
Il primo direttore fu l’abate Giovanni Maria Linguiti, un teologo che aveva fatto degli studi “sul trattamento dei folli”. Col susseguirsi di direttori, di ampliamento della struttura ed aggiunte, la Real Casa de’matti fu il primo manicomio moderno d’Italia, diventando una struttura all’avanguardia in tutta Europa e, per quanto grande, lo spazio si rivelò sempre insufficiente per le continue domande di internamento.
(Real Casa dei matti di Aversa) |
Si arriva così, con fasi alterne, al ventesimo secolo, con un anticipo di quasi un secolo sull’istituzione dei manicomi in Italia, avvenuta con la legge N°36 del 1904, rimasta in vigore fino all’abolizione con la legge 180 del 1978, conosciuta anche come legge “Basaglia”.
Molti ritengono che la legge 180 abbia stabilito la definitiva chiusura dei manicomi. In realtà, gettò solamente le basi culturali e scientifiche del processo di chiusura. In definitiva Basaglia sosteneva che il malato doveva essere collocato in ospedale solo in situazioni di emergenza, non gestibili dal malato o dalla famiglia, e restarvi solo per il periodo di tempo necessario. Inoltre, previde il divieto di costruire nuovi manicomi e la graduale chiusura di quelli esistenti.
L’ospedale psichiatrico fu svuotato nel 1998 e chiusa nel 1999. E’la fine di un’epoca di cui si doveva preservare la memoria e le testimonianze più fulgide. Tutto invece sembrava destinato a cadere nell’oblio.
Pubblicato da Mercurio Saraceni
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