Raffaele Mattioli
Parte 1/5
di Renata d'Ardes
Grande banchiere, raffinato umanista
e grande uomo, profondamente colto e curioso, Raffaele Mattioli fu anche
scaltro e abile manovratore dei destini economici dell’Italia del dopoguerra.
Duro, al limite della spietatezza con
i presuntuosi, sferzante con i cinici, inesorabile con gli ingrati, si
addolciva invece con i più semplici ai quali non avrebbe mai inflitto
un’umiliazione.
Mattioli era sempre molto severo con
i potenti sui quali spesso esercitava quella che può ben essere definita
«l’arma del sarcasmo»; la totale assenza di subalternità e una superiorità
intellettuale gli davano quel piglio autoritario di cui finiva egli stesso col
compiacersi e che irritava, invece, le persone che lo incontravano.
Giancarlo Galli, giornalista e
saggista, nel suo libro «Il banchiere eretico» ha tentato di definire la
complessa personalità e l’opera di Mattioli: entrato in Comit non ancora
trentenne, ne è uscito dopo quarantasette anni di ininterrotto servizio il 22
aprile 1972, prima vittima della lottizzazione politica e della spartizione
forsennata di poltrone in corso tra DC e PSI, rifiutando orgogliosamente la
presidenza onoraria. Dagli Anni Trenta ai Settanta, epoca di grandi mutazioni,
guidò le sorti della BCI (Comit) e in parte anche dell’economia stessa del
nostro Paese.
Fu definito un uomo polytropos,
cioè singolarmente multiforme. Non è quindi casuale che per i settantacinque
anni della Comit egli abbia fatto coniare una medaglia riproducente
un’immagine classica di Ulisse, il personaggio dell’immaginario che
l’archeologo Bernard Andreae in un suo libro definì, in base ai reperti
iconografici, il prototipo dell’uomo dinamico moderno, addirittura il
precursore «dell’uomo europeo».
Mattioli nacque a Vasto, in provincia
di Chieti, il 20 marzo 1895. Secondo di tre figli, frequentò con brillanti
risultati l’istituto Tecnico Commerciale «Galiani» di Chieti, successivamente
nel 1912 si trasferì a Genova, iscrivendosi all’istituto Superiore di Studi
Commerciali. Era felice d’essere abruzzese, e fiero d’essere italiano. I due
patriottismi in lui, come nella maggior parte degli uomini della sua
generazione, si fondevano naturalmente. II suo Abruzzo aveva dato i natali ai
grandi patrioti italiani Bertrando e Silvio Spaventa, e al nipote degli
Spaventa, Benedetto Croce, il più profondo e colto degli studiosi che
maggiormente influenzò la vita intellettuale del nostro umanista. Quando
parlava degli Spaventa, gli si illuminava lo sguardo. La loro grandezza era la
grandezza che egli sognava per l’Italia; nobiltà d’animo, altezza di pensiero,
larghezza di visione, severità di studi e di azione.
Croce inizialmente diffidò di
Mattioli: pensò che fosse un «orecchiante». In seguito, ammise di essersi
sbagliato, perché quello di Mattioli era amore autentico per la cultura:
spesso si azzuffavano, amichevolmente s’intende, sulla concezione che lui aveva
per la cultura, l’amore per la cultura libresca, a lui l’accademismo piaceva,
mentre, per alcuni, fu considerato un male italiano..., ma nel giudizio sui valori non sbagliava. Scartava
la giovane cultura italiana, ma aiutava i giovani, e se riconosceva un talento
era sempre pronto a sostenerlo. Se Mattioli fosse nato in Francia avrebbe
intere librerie a lui dedicate, ma in Italia fu dimenticato, visto che questo è
un Paese che spreca i suoi talenti; «gli italiani non sono un popolo, sono
accampati in Italia, come cavallette che devastano ogni cosa» (Indro
Montanelli). | (Benedetto Croce)
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Mattioli di Croce non fu
soltanto, come comunemente si dice, amico; fu anche seguace assiduo,
assimilatore di tutti gli aspetti di quel pensiero non in superficie, ma in
profondità. In un discorso che egli tenne a Parigi, al Centro di Cultura
Italiana, su Croce e la cultura francese, Mattioli ci dà la misura della
conoscenza che egli ebbe degli scritti del filosofo; non certo una conoscenza
superficiale, da dilettante, ma minuziosissima, portata su ogni particolare.
Presso l’istituto di Studi Storici di Napoli, egli illustrò il suo rapporto con
Croce, spiegò quale fu il nesso profondo che lo legava all’amico filosofo,
chiarendo in sostanza quella concezione che costituì la «sua filosofia».
Mattioli si avvicinò a Croce sulla base della scoperta fatta dal Maestro della
categoria dell’utile, scoperta che gli aprì le ragioni di una giustificazione
del suo pratico operare, dell’operare che apparteneva alla sua specifica
professione. La categoria dell’utile divenne la categoria della vita, della
vitalità. La vitalità in cui tutto viene ad essere riassorbito e compreso,
questo fondo oscuro, questo gurgite, questo vortice da cui tutto promana
e in cui tutto confluisce, concetti e intuizioni, impulsi e sentimenti e
operazioni.
Nel 1915, allo scoppio
della «grande guerra» interruppe gli studi universitari e si arruolò come
volontario nell’esercito, con il grado di Ufficiale di Fanteria. Partecipò a
varie battaglie: ferito a un braccio, ottenne una medaglia di bronzo al valor
militare. Dopo la convalescenza, tornò a combattere, partecipando alla presa di
Trieste: in quest'occasione conoscerà la prima moglie, diventando padre nel
mese di luglio del 1920. Distaccato a Fiume al termine della guerra, con il
grado di Capitano, è per qualche mese al fianco di Gabriele D’Annunzio, quale
addetto all’ufficio stampa. Mattioli partecipò alla spedizione per senso di
necessità, convinto di cambiare qualche cosa nel nostro Paese dal momento che
le cose non potevano continuare con la mucine di sempre. Mattioli non
tollerò il gergo, il modo di non pensare, il tono del parlare di D’Annunzio,
soprattutto quella specie di curiosa democrazia che reggeva Fiume. Puntualmente
Mattioli contraddiceva il Vate e cercava di obbligarlo a «fare i conti». Alla
fine D’Annunzio esplose: «Odio i ragionatori che hanno il cervello con il
callo, come il ginocchio del cammello nel deserto». Guarito ben presto dalla
retorica del Vate, ha un’ammirazione incondizionata che lo affascina, più che
convincerlo, data dalla forza della parola; ma più ancora o più in profondo,
l’ideologia risorgimentale.
Mattioli non è mai stato un dannunziano,
quindi non è stato un fascista, quindi non è stato un comunista, quindi non è
stato nulla che significasse retorica, partito preso, teoria preconcetta e così
via. Fu un uomo che seriamente cercava di capire, e cercava di capire per
creare.
Sulla sua partecipazione alla guerra
Mattioli non lasciò testimonianze: l’aveva tagliata fuori dai suoi ricordi; né
ritenne che fosse argomento da inserire nella sua inesauribile raccolta di
aneddoti. Le rare volte che ne parlava, e accadeva soltanto con gli amici più
intimi, era solo per raccontare del periodo, ricco di incontri umani, trascorso
nell’ospedale militare di Napoli, dove fo ricoverato per una grave ferita al
braccio sinistro; ma per sfuggire alla retorica, che intravedeva sempre in
agguato, non disse mai in quale circostanza fosse rimasto ferito. «Del resto»,
spiegava, «io, in guerra, mi sono lanciato sportivamente». E aggiungeva:
«Pensate un po’, sportivamente, io che non so andare neanche in bicicletta!».
Non raccontò mai nulla. La sola traccia visibile del suo «passaggio» attraverso
la guerra, fo il braccio lievemente impedito dai postumi della ferita che
qualche volta toccava, dicendo: «Domani pioverà».
A guerra finita, Raffaele Mattioli si
ritrovò nei corridoi dell’università di Genova, dove la Scuola Superiore di
Commercio divenne Facoltà. Tutti i candidati, o quasi, sono in divisa, non
chiedono più di un diciotto assolutorio; lui ha sul petto il nastrino azzurro
della medaglia al valore e quello della croce militare, e, sulle maniche, i
gradi di Capitano.
Si laureò in Economia Politica, con la
tesi: «Note storico-critiche intorno al Progetto Fisher per la stabilizzazione
della moneta»: fo molto apprezzato per la chiarezza della tesi da Attilio
Cablati, suo relatore ed economista di fama, che l’Italia fascista aveva
emarginato e avversato.
Sarà proprio Cabiati a volere Mattioli
come assistente stipendiato alla Bocconi, presso l’Istituto di Economia
Politica, fondata nel 1920 da Luigi Einaudi, Ulisse Gobbi e dallo stesso
Cabiati, nonché, ancora, nella redazione della prestigiosa «Rivista Bancaria». (Tratto dalla Rivista: PERCORSI d'oggi Rassegna di Letteratura-Arte-Attualità - Anno XXX - n. 3 - Maggio-Giugno 2014)
(continua)
Renata D’Ardes
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