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lunedì 22 marzo 2021

Raffaele Mattioli 1/5

 


 

Raffaele Mattioli 

Banchiere - Umanista – Uomo

Parte 1/5

di Renata d'Ardes

Grande banchiere, raffinato umanista e grande uomo, profondamente colto e curioso, Raffaele Mattioli fu anche scaltro e abile manovratore dei destini economici dell’Italia del dopoguerra.

Duro, al limite della spietatezza con i presuntuosi, sfer­zante con i cinici, inesorabile con gli ingrati, si addolciva invece con i più semplici ai quali non avrebbe mai inflit­to un’umiliazione.

Mattioli era sempre molto severo con i potenti sui quali spesso esercitava quella che può ben essere definita «l’arma del sarcasmo»; la totale assenza di subalternità e una superiorità intellettuale gli davano quel piglio autori­tario di cui finiva egli stesso col compiacersi e che irrita­va, invece, le persone che lo incontravano.

Giancarlo Galli, giornalista e saggista, nel suo libro «Il banchiere eretico» ha tentato di definire la complessa personalità e l’opera di Mattioli: entrato in Comit non ancora trentenne, ne è uscito dopo quarantasette anni di ininterrotto servizio il 22 aprile 1972, prima vittima della lottizzazione politica e della spartizione forsennata di poltrone in corso tra DC e PSI, rifiutando orgogliosa­mente la presidenza onoraria. Dagli Anni Trenta ai Settanta, epoca di grandi mutazioni, guidò le sorti della BCI (Comit) e in parte anche dell’economia stessa del nostro Paese.

Fu definito un uomo polytropos, cioè singolarmente multiforme. Non è quindi casuale che per i settantacinque anni della Comit egli abbia fatto coniare una meda­glia riproducente un’immagine classica di Ulisse, il perso­naggio dell’immaginario che l’archeologo Bernard Andreae in un suo libro definì, in base ai reperti iconogra­fici, il prototipo dell’uomo dinamico moderno, addirittu­ra il precursore «dell’uomo europeo».

Mattioli nacque a Vasto, in provincia di Chieti, il 20 marzo 1895. Secondo di tre figli, frequentò con brillanti risultati l’istituto Tecnico Commerciale «Galiani» di Chieti, successivamente nel 1912 si trasferì a Genova, iscrivendosi all’istituto Superiore di Studi Commerciali. Era felice d’essere abruzzese, e fiero d’essere italiano. I due patriottismi in lui, come nella maggior parte degli uomi­ni della sua generazione, si fondevano naturalmente. II suo Abruzzo aveva dato i natali ai grandi patrioti italiani Bertrando e Silvio Spaventa, e al nipote degli Spaventa, Benedetto Croce, il più profondo e colto degli studiosi che maggiormente influenzò la vita intellettuale del nostro umanista. Quando parlava degli Spaventa, gli si illuminava lo sguardo. La loro grandezza era la grandezza che egli sognava per l’Italia; nobiltà d’animo, altezza di pensiero, larghezza di visione, severità di studi e di azio­ne.

Croce inizialmente diffidò di Mattioli: pensò che fosse un «orecchiante». In seguito, ammise di essersi sbagliato, perché quello di Mattioli era amore autentico per la cul­tura: spesso si azzuffavano, amichevolmente s’intende, sulla concezione che lui aveva per la cultura, l’amore per la cultura libresca, a lui l’accademismo piaceva, mentre, per alcuni, fu considerato un male italiano..., ma nel giu­dizio sui valori non sbagliava. Scartava la giovane cultura italiana, ma aiutava i giovani, e se riconosceva un talento era sempre pronto a sostenerlo. Se Mattioli fosse nato in Francia avrebbe intere librerie a lui dedicate, ma in Italia fu dimenticato, visto che questo è un Paese che spreca i suoi talenti; «gli italiani non sono un popolo, sono accampati in Italia, come cavallette che devastano ogni cosa» (Indro Montanelli).

(Benedetto Croce)

Mattioli di Croce non fu soltanto, come comunemen­te si dice, amico; fu anche seguace assiduo, assimilatore di tutti gli aspetti di quel pensiero non in superficie, ma in profondità. In un discorso che egli tenne a Parigi, al Centro di Cultura Italiana, su Croce e la cultura francese, Mattioli ci dà la misura della conoscenza che egli ebbe degli scritti del filosofo; non certo una conoscenza super­ficiale, da dilettante, ma minuziosissima, portata su ogni particolare. Presso l’istituto di Studi Storici di Napoli, egli illustrò il suo rapporto con Croce, spiegò quale fu il nesso profondo che lo legava all’amico filosofo, chiarendo in sostanza quella concezione che costituì la «sua filosofia». Mattioli si avvicinò a Croce sulla base della scoperta fatta dal Maestro della categoria dell’utile, scoperta che gli aprì le ragioni di una giustificazione del suo pratico operare, dell’operare che apparteneva alla sua specifica professione. La categoria dell’utile divenne la categoria della vita, della vitalità. La vitalità in cui tutto viene ad essere riassorbito e compreso, questo fondo oscuro, questo gurgite, questo vortice da cui tutto promana e in cui tutto confluisce, concetti e intuizioni, impulsi e sentimenti e operazioni.

Nel 1915, allo scoppio della «grande guerra» interrup­pe gli studi universitari e si arruolò come volontario nel­l’esercito, con il grado di Ufficiale di Fanteria. Partecipò a varie battaglie: ferito a un braccio, ottenne una meda­glia di bronzo al valor militare. Dopo la convalescenza, tornò a combattere, partecipando alla presa di Trieste: in quest'occasione conoscerà la prima moglie, diventando padre nel mese di luglio del 1920. Distaccato a Fiume al termine della guerra, con il grado di Capitano, è per qualche mese al fianco di Gabriele D’Annunzio, quale addetto all’ufficio stampa. Mattioli partecipò alla spedi­zione per senso di necessità, convinto di cambiare qual­che cosa nel nostro Paese dal momento che le cose non potevano continuare con la mucine di sempre. Mattioli non tollerò il gergo, il modo di non pensare, il tono del parlare di D’Annunzio, soprattutto quella specie di curiosa democrazia che reggeva Fiume. Puntualmente Mattioli contraddiceva il Vate e cercava di obbligarlo a «fare i conti». Alla fine D’Annunzio esplose: «Odio i ragionatori che hanno il cervello con il callo, come il ginocchio del cammello nel deserto». Guarito ben presto dalla retorica del Vate, ha un’ammirazione incondiziona­ta che lo affascina, più che convincerlo, data dalla forza della parola; ma più ancora o più in profondo, l’ideolo­gia risorgimentale.

 Mattioli non è mai stato un dannunziano, quindi non è stato un fascista, quindi non è stato un comunista, quindi non è stato nulla che significasse retorica, partito preso, teoria preconcetta e così via. Fu un uomo che seria­mente cercava di capire, e cercava di capire per creare.

Sulla sua partecipazione alla guerra Mattioli non lasciò testimonianze: l’aveva tagliata fuori dai suoi ricordi; né ritenne che fosse argomento da inserire nella sua inesau­ribile raccolta di aneddoti. Le rare volte che ne parlava, e accadeva soltanto con gli amici più intimi, era solo per raccontare del periodo, ricco di incontri umani, trascorso nell’ospedale militare di Napoli, dove fo ricoverato per una grave ferita al braccio sinistro; ma per sfuggire alla retorica, che intravedeva sempre in agguato, non disse mai in quale circostanza fosse rimasto ferito. «Del resto», spiegava, «io, in guerra, mi sono lanciato sportivamente». E aggiungeva: «Pensate un po’, sportivamente, io che non so andare neanche in bicicletta!». Non raccontò mai nulla. La sola traccia visibile del suo «passaggio» attraver­so la guerra, fo il braccio lievemente impedito dai postu­mi della ferita che qualche volta toccava, dicendo: «Domani pioverà».

A guerra finita, Raffaele Mattioli si ritrovò nei corridoi dell’università di Genova, dove la Scuola Superiore di Commercio divenne Facoltà. Tutti i candidati, o quasi, sono in divisa, non chiedono più di un diciotto assolutorio; lui ha sul petto il nastrino azzurro della medaglia al valore e quello della croce militare, e, sulle maniche, i gradi di Capitano.

Si laureò in Economia Politica, con la tesi: «Note sto­rico-critiche intorno al Progetto Fisher per la stabilizza­zione della moneta»: fo molto apprezzato per la chiarezza della tesi da Attilio Cablati, suo relatore ed economista di fama, che l’Italia fascista aveva emarginato e avversato.

Sarà proprio Cabiati a volere Mattioli come assistente stipendiato alla Bocconi, presso l’Istituto di Economia Politica, fondata nel 1920 da Luigi Einaudi, Ulisse Gobbi e dallo stesso Cabiati, nonché, ancora, nella redazione della prestigiosa «Rivista Bancaria». 

(Tratto dalla Rivista: PERCORSI d'oggi Rassegna di Letteratura-Arte-Attualità - Anno XXX - n. 3 - Maggio-Giugno 2014)

(continua)

Renata D’Ardes


Pubblicato da Mercurio Saraceni



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