di Renata D'Ardes
Pur essendo convinto antifascista, un autentico liberal—progressista, Mattioli aveva ottimi rapporti con Mussolini. Con Palmiro Togliatti ci fu una forte amicizia personale, animata anche dai comuni interessi umanistici e dal gusto delle preziose citazioni e delle belle e curate edizioni. Il rapporto col PCI e con Togliatti si materializzò attraverso Piero Sraffa, al quale aveva fatto pervenire cospicui contributi alle spese per il ricovero di AntonioGramsci; dopo la morte dell'intellettuale sardo nel 1937, Mattioli si adopererà per salvare i suoi «Quaderni del carcere», custodendoli nella cassaforte della banca per poi consegnarli, tramite Sraffa, a Togliatti.
(Piero Sraffa) |
(Antonio Gramsci - 1922) |
Nello stesso tempo, Mattioli seppe mantenere, con sicura e dignitosa autonomia, i necessari rapporti di utile collaborazione con gli uomini preposti alla direzione governativa del nostro Paese, nel dovere che egli sentiva di recare, dal posto che occupava, il massimo contributo allo sviluppo dell’economia italiana.
Un giorno Mattioli ricevette in banca l’amico e conterraneo
Giovanni Titta Rosa, il quale gli chiese un contributo per Umberto Fracchia,
singolare e geniale personaggio del giornalismo e della letteratura, che
avrebbe voluto fondare un settimanale. Il banchiere gli firmò un assegno di
50.000 lire e, in quell’occasione, Mattioli siglò l’atto di fondazione de «La
Fiera Letteraria». Fu il primo gesto ufficiale di mecenatismo, ma si trattò pur
sempre di un aspetto esterno al suo «umanesimo», come lo definì Natalino
Sapegno.
(Giovanni Titta Rosa) |
Banchiere umanista o umanista banchiere? Alberto Vigevani, il libraio antiquario milanese, poi amministratore della Ricciardi e componente del consiglio di amministrazione della casa editrice, privilegiò, fra i due termini, l’umanista. Malagodi, invece, preferì parlare di «un uomo completo», che alimentava di esperienza umana e pratica la sua cultura, allo stesso modo in cui alimentava di cultura il suo lavoro pratico.
Se vogliamo renderci veramente conto di quello che è stato
l’umanesimo di Mattioli, dobbiamo andare al di là di questi aspetti esterni, e
cercare di cogliere quello che era il nucleo profondo di questa sua attività,
di renderci conto delle ragioni per cui in lui potevano convivere come cose
distinte, ma vivere veramente, facendo una cosa sola, intrecciandosi continuamente
aspetti apparentemente così distinti e così diversi come quelli del Mattioli
banchiere e del Mattioli umanista, lettore, editore di testi, poeta nelle ore
libere, traduttore di scrittori inglesi con mano estremamente felice; si deve,
dunque, tentare di penetrare in questo nucleo profondo in cui tutti gli aspetti
della personalità di Mattioli vengono ad incontrarsi e a costituire un’unità.
Questo nucleo profondo, questa radice dell’umanesimo di Mattioli non può
risiedere altrove se non in una concezione della vita, diciamo in una
filosofia; una filosofia che diventa vita.
Attraverso la Comit, Mattioli svolse un’intensa azione di
mecenatismo culturale, finanziando riviste («La Fiera Letteraria», «La
Cultura»), istituzioni (fu presidente e finanziatore dell’Istituto Italiano pergli Studi Storici), case editrici (ricoprendo il ruolo di consigliere culturale
della Ricciardi promuovendone la storica collezione letteraria di Studi e
Testi).
(La Fiera Letteraria) |
Nel 1933 Mattioli fu scelto dal Governo a sostituire Toeplitz al
vertice della banca; ciò pur essendo stato, per sette anni, stretto
collaboratore di un Toeplitz verso cui il regime fascista nutriva aperta
ostilità.
Mattioli raccolse l’eredità di una banca fallita, disorganizzata
e riuscì a realizzare una vera e propria rifondazione tecnica dell’istituto,
assicurando all’economia del Paese una struttura che sistematicamente si
distinse nella performance e nello stile operativo. Mattioli riuscì in
ciò, interpretando al meglio quel ruolo nuovo di grande banchiere pubblico, a
cui lo chiamava la riforma bancaria del 1936.
Riuscì nell’impresa di guidare la banca che gli fu affidata «come
un privato»; operò in autonomia, secondo i canoni della tecnica e
dell’esperienza bancaria nel concedere il credito; servì l’interesse generale
rendendo la Comit, sin dal 1937, profittevole e solida.
La Comit, da lui diretta, faceva quanto poteva per tonificare
l’economia con esiti via via più lusinghieri. Tradizionalmente era stata la
banca delle industrie, ma nel secondo dopoguerra, date le difficoltà
alimentari, si volse risolutamente verso le campagne per l’agricoltura; un
mutamento d’indirizzo che inorgoglì Mattioli.
Più che dell’esperienza di Toeplitz, Mattioli finì così col
riallacciarsi idealmente a quella della Comit di Joel, della Comit del periodo
giolittiano. Come allora, anche se in condizioni e con strumenti molto diversi,
la Banca mise la sua organizzazione e i suoi mezzi al servizio di una crescita
diffusa, in una funzione di supplenza rispetto a un mercato dei capitali
altrimenti impotenti a svilupparsi.
Naturalmente, per garantire una crescita del sistema dell’impresa
solida e stabile, non poteva bastare la Banca Commerciale Italiana; e non
sarebbe bastato neppure che l’intero sistema bancario si fosse comportato
secondo il modello della Comit di Mattioli. Erano necessarie molte altre
condizioni che non dipendevano certo da Mattioli e dalla sua Banca.
Una prima condizione consisteva nella capacità degli industriali
stessi di fare i salti di qualità comportati dalla crescita delle loro imprese.
Tutti sanno che, per ogni attività economica in sviluppo, esistono soglie di
fronte alle quali o si effettua il salto o si comincia a deperire.
Una seconda condizione consisteva nell’esistenza di margini di
autofinanziamento. Il credito bancario avrebbe dovuto consentire soltanto
l’avviamento dell’attività o della crescita, il cosiddetto prefinanziamento.
Di qui la terza condizione: il credito bancario avrebbe potuto
essere restituito ricorrendo al mercato dei capitali o usufruendo del credito a
medio e a lungo termine. Nel nostro Paese il mercato dei capitali è sempre
stato modesto, asfittico e distorto. La stessa esperienza storica delle grandi
banche «miste» trovò la sua principale spiegazione sulla base di una tale
carenza. Quanto agli istituti di credito mobiliare, chiusa la fase storica
delle banche «miste», per lungo tempo rappresentarono il grande vuoto lasciato
dalla legge bancaria. Lo stesso Mattioli nel 1946 inventò, e poi realizzò,
Mediobanca, per anni l’unico istituto di credito a medio termine presente sul
mercato italiano.
Le banche d’interesse nazionale, proprio quelle che avevano
costituito Mediobanca, continuarono in pratica a fare anche il mestiere di
quest’ultima, nel senso che continuavano a concedere finanziamenti che solo
formalmente furono a breve termine, ma in sostanza rappresentavano posizioni
stagnanti di durata pluriennale, riferite ad esigenze che normalmente avrebbero
dovuto essere soddisfatte mediante forme di credito a medio termine. Mattioli
ritenne che tali finanziamenti andassero trasferiti a Mediobanca, anche se per
arrivare a ciò occorreva che questa venisse a disporre delle risorse
necessarie. Tale risultato poteva agevolmente essere realizzato se le banche di
interesse nazionale avessero accettato di alleggerirsi -trasferendoli a
Mediobanca- di una parte dei loro finanziamenti.
Mediobanca divenne, a questo punto, una delle più importanti
istituzioni di mercato bancario e finanziario italiano, modello sul quale
furono create tante piccole altre pubbliche e private: piuttosto pubbliche che
private, piuttosto inefficienti che efficienti, mentre Mediobanca rimase fedele
a quel modulo e a quella impronta che le diede il suo fondatore.
(continua)
Renata D'Ardes
Pubblicato da Mercurio Saraceni
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