Pagine

domenica 20 giugno 2021

Raffaele Mattioli Banchiere - Umanista - Uomo 3/5

 

 (continua dall'articolo precedente)



























Raffaele Mattioli. 
Banchiere - Umanista - Uomo

di Renata D'Ardes

Pur essendo convinto antifascista, un autentico libe­ral—progressista, Mattioli aveva ottimi rapporti con Mussolini. Con Palmiro Togliatti ci fu una forte amicizia personale, animata anche dai comuni interessi umanistici e dal gusto delle preziose citazioni e delle belle e curate edizioni. Il rapporto col PCI e con Togliatti si materializ­zò attraverso Piero Sraffa, al quale aveva fatto pervenire cospicui contributi alle spese per il ricovero di AntonioGramsci; dopo la morte dell'intellettuale sardo nel 1937, Mattioli si adopererà per salvare i suoi «Quaderni del car­cere», custodendoli nella cassaforte della banca per poi consegnarli, tramite Sraffa, a Togliatti.

(Piero Sraffa)

(Antonio Gramsci - 1922)

Nello stesso tempo, Mattioli seppe mantenere, con sicura e dignitosa autonomia, i necessari rapporti di utile collaborazione con gli uomini preposti alla direzione governativa del nostro Paese, nel dovere che egli sentiva di recare, dal posto che occupava, il massimo contributo allo sviluppo dell’economia italiana.

Un giorno Mattioli ricevette in banca l’amico e conter­raneo Giovanni Titta Rosa, il quale gli chiese un contri­buto per Umberto Fracchia, singolare e geniale personag­gio del giornalismo e della letteratura, che avrebbe voluto fondare un settimanale. Il banchiere gli firmò un assegno di 50.000 lire e, in quell’occasione, Mattioli siglò l’atto di fondazione de «La Fiera Letteraria». Fu il primo gesto ufficiale di mecenatismo, ma si trattò pur sempre di un aspetto esterno al suo «umanesimo», come lo definì Natalino Sapegno.

(Giovanni Titta Rosa)

Banchiere umanista o umanista banchiere? Alberto Vigevani, il libraio antiquario milanese, poi amministra­tore della Ricciardi e componente del consiglio di ammi­nistrazione della casa editrice, privilegiò, fra i due termi­ni, l’umanista. Malagodi, invece, preferì parlare di «un uomo completo», che alimentava di esperienza umana e pratica la sua cultura, allo stesso modo in cui alimentava di cultura il suo lavoro pratico.

Se vogliamo renderci veramente conto di quello che è stato l’umanesimo di Mattioli, dobbiamo andare al di là di questi aspetti esterni, e cercare di cogliere quello che era il nucleo profondo di questa sua attività, di renderci conto delle ragioni per cui in lui potevano convivere come cose distinte, ma vivere veramente, facendo una cosa sola, intrecciandosi continuamente aspetti apparen­temente così distinti e così diversi come quelli del Mattioli banchiere e del Mattioli umanista, lettore, edito­re di testi, poeta nelle ore libere, traduttore di scrittori inglesi con mano estremamente felice; si deve, dunque, tentare di penetrare in questo nucleo profondo in cui tutti gli aspetti della personalità di Mattioli vengono ad incontrarsi e a costituire un’unità. Questo nucleo profon­do, questa radice dell’umanesimo di Mattioli non può risiedere altrove se non in una concezione della vita, dicia­mo in una filosofia; una filosofia che diventa vita.

Attraverso la Comit, Mattioli svolse un’intensa azione di mecenatismo culturale, finanziando riviste («La Fiera Letteraria», «La Cultura»), istituzioni (fu presidente e finanziatore dell’Istituto Italiano pergli Studi Storici), case editrici (ricoprendo il ruolo di consigliere culturale della Ricciardi promuovendone la storica collezione lette­raria di Studi e Testi).

(La Fiera Letteraria)


Nel 1933 Mattioli fu scelto dal Governo a sostituire Toeplitz al vertice della banca; ciò pur essendo stato, per sette anni, stretto collaboratore di un Toeplitz verso cui il regime fascista nutriva aperta ostilità.

Mattioli raccolse l’eredità di una banca fallita, disorga­nizzata e riuscì a realizzare una vera e propria rifondazio­ne tecnica dell’istituto, assicurando all’economia del Paese una struttura che sistematicamente si distinse nella performance e nello stile operativo. Mattioli riuscì in ciò, interpretando al meglio quel ruolo nuovo di grande ban­chiere pubblico, a cui lo chiamava la riforma bancaria del 1936.

Riuscì nell’impresa di guidare la banca che gli fu affi­data «come un privato»; operò in autonomia, secondo i canoni della tecnica e dell’esperienza bancaria nel conce­dere il credito; servì l’interesse generale rendendo la Comit, sin dal 1937, profittevole e solida.

La Comit, da lui diretta, faceva quanto poteva per tonificare l’economia con esiti via via più lusinghieri. Tradizionalmente era stata la banca delle industrie, ma nel secondo dopoguerra, date le difficoltà alimentari, si volse risolutamente verso le campagne per l’agricoltura; un mutamento d’indirizzo che inorgoglì Mattioli.

Più che dell’esperienza di Toeplitz, Mattioli finì così col riallacciarsi idealmente a quella della Comit di Joel, della Comit del periodo giolittiano. Come allora, anche se in condizioni e con strumenti molto diversi, la Banca mise la sua organizzazione e i suoi mezzi al servizio di una cresci­ta diffusa, in una funzione di supplenza rispetto a un mer­cato dei capitali altrimenti impotenti a svilupparsi.

Naturalmente, per garantire una crescita del sistema dell’impresa solida e stabile, non poteva bastare la Banca Commerciale Italiana; e non sarebbe bastato neppure che l’intero sistema bancario si fosse comportato secondo il modello della Comit di Mattioli. Erano necessarie molte altre condizioni che non dipendevano certo da Mattioli e dalla sua Banca.



Una prima condizione consisteva nella capacità degli industriali stessi di fare i salti di qualità comportati dalla crescita delle loro imprese. Tutti sanno che, per ogni atti­vità economica in sviluppo, esistono soglie di fronte alle quali o si effettua il salto o si comincia a deperire.

Una seconda condizione consisteva nell’esistenza di margini di autofinanziamento. Il credito bancario avreb­be dovuto consentire soltanto l’avviamento dell’attività o della crescita, il cosiddetto prefinanziamento.

Di qui la terza condizione: il credito bancario avrebbe potuto essere restituito ricorrendo al mercato dei capitali o usufruendo del credito a medio e a lungo termine. Nel nostro Paese il mercato dei capitali è sempre stato mode­sto, asfittico e distorto. La stessa esperienza storica delle grandi banche «miste» trovò la sua principale spiegazione sulla base di una tale carenza. Quanto agli istituti di cre­dito mobiliare, chiusa la fase storica delle banche «miste», per lungo tempo rappresentarono il grande vuoto lasciato dalla legge bancaria. Lo stesso Mattioli nel 1946 inventò, e poi realizzò, Mediobanca, per anni l’unico istituto di credito a medio termine presente sul mercato italiano.

Le banche d’interesse nazionale, proprio quelle che avevano costituito Mediobanca, continuarono in pratica a fare anche il mestiere di quest’ultima, nel senso che con­tinuavano a concedere finanziamenti che solo formal­mente furono a breve termine, ma in sostanza rappresen­tavano posizioni stagnanti di durata pluriennale, riferite ad esigenze che normalmente avrebbero dovuto essere soddisfatte mediante forme di credito a medio termine. Mattioli ritenne che tali finanziamenti andassero trasferi­ti a Mediobanca, anche se per arrivare a ciò occorreva che questa venisse a disporre delle risorse necessarie. Tale risultato poteva agevolmente essere realizzato se le banche di interesse nazionale avessero accettato di alleggerirsi -trasferendoli a Mediobanca- di una parte dei loro finan­ziamenti.

Mediobanca divenne, a questo punto, una delle più importanti istituzioni di mercato bancario e finanziario italiano, modello sul quale furono create tante piccole altre pubbliche e private: piuttosto pubbliche che private, piuttosto inefficienti che efficienti, mentre Mediobanca rimase fedele a quel modulo e a quella impronta che le diede il suo fondatore.

(continua)

Renata D'Ardes


Pubblicato da Mercurio Saraceni